Claudio Cornini, Director Cornhill & Harvest Limited
Nuovo appuntamento con QUI LONDRA – rubrica curata da Claudio Cornini*, fondatore della boutique finanziaria londinese Cornhill & Harvest. Una realtà che in partnership con ANIP offre un importante aiuto per lo sviluppo delle nostre imprese.
In questi giorni la domanda inevitabile che viene internazionalmente posta a chi vive in UK è “che succede con Brexit?”. E dagli amici italiani, un’attimo dopo – a fronte di previsioni di forte riduzione del PIL UK con Brexit: “e in Italia che succederebbe?”.
E’ come se oggi, con Brexit, ci sia un riferimento, un benchmark, per quantificare gli impatti di un qualche disimpegno dell’Italia dall’Unione – che sarebbe nell’aria, in componenti dell’opinione pubblica e del governo.
Per fare questo esercizio – ci si augura solo accademico – guardiamo ai punti di partenza in relazione al fatidico spread verso il Bund, indicatore sintentico del giudizio sul paese – e fattore discriminante della sostenibilitá del debito.
Ci sono molte determinanti dello spread, ma, per semplificare brutalmente, isoliamo la variabile “ammontare del debito come percentuale del PIL”. Prevedibilmente, si vede un’evidente correlazione tra le due variabili: al crescere della percentuale di debito cresce lo spread (vedi grafico) per paesi selezionati del G20, con spread aggiustati dal future a 18 mesi verso Euro). UK e Francia hanno debito superiore alla Germania – anche per finanziare le spese militari da potenze nucleari – e quindi registrano uno spread rispetto al Bund[il grafico in pdf] . Notate pero’ come al debito UK, minore di quello della Francia (87% contro 96%) corrisponda invece uno spread maggiore (100 contro 38) già aggiustato per il peggioramento del cambio a termine Euro/GBP. In base alla mia brutale semplificazione, questo differenziale sfavorevole per UK fattorizza gli effetti di svantaggio commerciale di Brexit.
Ancora: Australia e Canada, nonostante il debito virtuoso, pagano in termini di spread la loro non appartenenza a blocchi commerciali o assenza di massa critica. E l’Australia più del Canada, che fa comunque parte del Nafta – da qualche giorno trasformato in USMCA.
Andando alla destra del grafico, si vedono i paesi G20 con debito maggiore del PIL: USA e Italia (il Giappone, che ha debito maggiore dell’Italia, e’ escluso dal campione, tradando a premio sul Bund). Gli USA sono il paese titolare della moneta di riserva mondiale ed hanno il cosiddetto privilegio del signore: il mondo accetta il loro debito perché dà liquidità al sistema globale. Inoltre il signore è tale perché è la potenza militare egemone e questo comporta elevati livelli di spesa che si riflettono nel debito.
L’Italia parte svantaggiata dal posizionamento di partenza, che riflette debito ed inefficienze pluridecadali. Una crisi con l’Unione la esporrebbe alla differenza di spread da svantaggio commerciale (tipo UK-Francia) e a quello da economia isolata (tipo Australia e Canada). Inoltre, in caso di uscita dall’Euro interverrebbe un terzo fattore – valutario – ancora più dirompente: per questo un’indicazione è la crescita nel 2015 dello spread greco all’indomani del referendum di rigetto delle condizioni europee, che vide un innalzamento di 670 punti di spread, da 1011 a 1687.
Tutto questo non vuol dire che sia stata una buona idea per UK di aderire al trattato di Lisbona del 2007 (che sancì il passaggio dalla comunità economica all’unione politica in Europa) o per l’Italia entrare nell’Euro nel 1999. Ma una volta dentro, il mercato punisce chi esce verso una situazione sistemicamente più debole.
Passando dall’accademia alla pratica, comincio a sentire sempre più investitori esteri parlare di ricerca di opportunità in Italia “non correlate” al rischio paese. Come le aziende orientate all’export. Le imprese ANIP, pur se inevitabilmente correlate al rischio Italia, sono fortunatamente abbastanza anelastiche all’andamento economico del Paese. Perche’ scuole, uffici, ospedali e alberghi vanno pur sempre puliti.