Nuovo appuntamento con QUI LONDRA – rubrica curata da Claudio Cornini*, fondatore della boutique finanziaria londinese Cornhill & Harvest. Una realtà che in partnership con ANIP offre un importante aiuto per lo sviluppo delle nostre imprese.
Da decenni ormai la gran parte delle imprese medie italiane avverte un forte limite alla capacità di ricorso finanziario alle banche.
I motivi sono noti e ne abbiamo parlato più volte. Lo scarso appetito per il rischio da parte di una sistema bancario che ha saputo generare – da solo – oltre il 20% delle sofferenze (NPLs) dell’intera UE (a 28, Regno Unito incluso!). E poi il tetto alla capacita’ di impiego reveniente dai ratios di vigilanza prudenziale, che limitano la capacita’ di prestare a un multiplo del patrimonio delle banche. Con tutto il Quantitative Easing del mondo, ovvero le iniezioni di liquidità effettuate dalle banche centrali a partire dal 2008, i limiti prudenziali non consentono di aumentare la circolazione monetaria. Infatti, effetto positivo: non abbiamo sostanzialmente inflazione; aspetto negativo: la liquidità non raggiunge le imprese. E’ come se la politica di vigilanza (restrittiva) azzerasse la politica monetaria (espansiva).
Ma al di là della camicia di forza delle banche, la liquidità esiste ed è crescente. Tanto tra gli Investitori Istituzionali (in primis Casse Previdenziali e Assicurazioni) che tra Family Offices e High Net Worth Individuals (i patrimoni individuali personali).
L’attesa è che questi soggetti in surplus investano nelle imprese – corto-circuitando l’ingessatura volontaria o prudenziale del sistema bancario. E questo o direttamente o per il tramite di una categoria di intermediari alternativi al Sistema, come i fondi di Private Equity e di Private Debt.
Ad aiutare questo trend lo scarso rendimento che i soggetti in surplus ricavano da impieghi tradizionali di liquidità in banca o in patrimoni gestiti, che spingerebbe, a parità di condizioni, verso impieghi più redditizzi come la sottoscrizione di fondi di Private Equity e Private Debt, se non addirittura investimenti diretti sull’Economia.
Tutto questo peraltro asseconderebbe un trend in atto in tutti i paesi evoluti, correggendo anzi una storica divergenza del dato italiano.
Di tutto questo si e’ parlato recentemente in un convegno AIFI ad Ischia, presieduto da Innocenzo Cipolletta, che ha messo intorno al tavolo Fondi Alternativi, Investitori Istituzionali e Imprese, rappresentate queste ultime da Vincenzo Boccia.
Vorrei però inserire delle note di cautela.
Gli Investitori Istituzionali e I family office – laddove abbiano appetito per aziende correlate al rischio Eurozona/Italia – devono essere comfortable con l’assunzione dei rischi di controparte. Devono ritenere che, rispetto ai molti errori del sistema bancario, la loro capacita’ di valutazione, diretta o tramite i Fondi di PE o PD, sappia selezionare meglio il rischio. Certamente quando vediamo all’opera i Fondi notiamo una notevole capacita’ di analisi sostanziale delle aziende e dei settori nei quali operano, delle quote di mercato, dei punti critici del business model ecc… Magari con meno attenzione alle garanzie e più ai covenants, ovvero al rispetto – nel divenire – di determinati rapporti economici e patrimoniali. Il tutto in contesti di bilancio e management accounts necessariamente certificati.
Poi il cavallo deve bere. Le operazioni di private equity implicano la diluizione della proprietà tipicamente con perdita del controllo. Serve una disponbiltà ad andare su questa strada. Le operazioni di Private Debt non sono diluitive ma hanno livelli di costo significativamante più alti di quelle del Sistema bancario. Certo, maglio pagare di più su un’operazione che c’è, che di meno su una, con le banche, che va costruita tutta in salita con difficolta’ crescenti man mano che si passa dagli interlocutori commerciali a quelli che gestiscono I rischi.
Infine, le micro-imprese sono per loro natura escluse da questo mondo. Difficile andare sotto un “ticket” di 5 milioni di finanziamento. Il comprensibile mantra che sentiamo dai Fondi è che il tempo speso per analizzare un’ operazione piccola o una da 100 milioni e’ lo stesso, ma la loro remunerazione e’ proporzionale alle dimensioni. Quindi non hanno incentive ad operare su deal di piccola taglia.
Anche la finanza è un fattore darwiniano come le altre forme di concorrenza per le risorse scarse. E, darwiniamente, anche la finanza spinge le imprese verso la concentrazione – per raggiungere una taglia minima che consenta loro di cogliere le opportunità che stanno faticosamente arrivando anche sul mercato italiano.
*Claudio Cornini, Director Cornhill & Harvest Limited